L’Isola di Ortigia: la Manhattan siciliana Piccola guida al nucleo storico di Siracusa

Giace de la Sicania al golfo avanti/un'isoletta che a Plemmirio ondoso/è posta incontro, e dagli antichi è detta/per nome Ortigia

Una nuova puntata nel nostro viaggio sulle orme del pittore maledetto.

Lo avevamo già incontrato in una rissa furibonda tra le strade di Campo Marzio a Roma, e c’era scappato anche il morto.

Poi tra gli stretti vicoli di Napoli, aggredito e sfregiato da quattro uomini in una spedizione punitiva venuta da lontano.

E per inseguirlo ancora una volta nelle sue scorribande tra i porti del Mediterraneo, oggi facciamo tappa in una città siciliana ricca di fascino e mito.

Siamo a Siracusa, e più precisamente su:

  • l’Isola di Ortigia

piccolo lembo di terra che si tuffa nel mare e nella storia, collegato alla terraferma tramite due ponti e pregno di infiniti tesori tutti da ammirare.

Prima di scoprire il nostro turbolento accompagnatore, tuffiamoci a grandi falcate nella storia millenaria della città e dell’Isola di Ortigia.

Un luogo unico al mondo dove si susseguono infinite stratificazioni di periodi storici e pacifici accostamenti tra popoli, lingue, culture e religioni giunti da lontano.

L’Isola di Ortigia nella storia

La dominazione greca, iniziata nel 734-33 a.C. da coloni provenienti da Corinto, portò infinito lustro a Siracusa e la città divenne una delle metropoli del mondo antico per potenza e prestigio.

L’Isola di Ortigia era il cuore pulsante della cosiddetta Pentapoli, e cioè i cinque quartieri in cui era suddivisa Siracusa – organizzata splendidamente e ricca di bellezze artistiche e naturali.

Cicerone non tardò a definire Siracusa come “la più grande e la più bella delle città greche”.

L’altro periodo di grande splendore della città si ebbe tra medioevo e primo rinascimento, quando Siracusa fu scelta come capitale della Camera reginale. Si trattava di un territorio molto vasto, una specie di stato nello stato, che il sovrano poneva sotto il controllo diretto della sua consorte.

Il terzo periodo di splendore di Siracusa coincide con gli anni seguenti al 1693.

Proprio in quell’anno un terribile terremoto distrusse la città e gran parte del tessuto urbano dell’Isola di Ortigia. I siracusani e tutti gli abitanti della Val di Noto, malgrado i lutti e le sciagure, non si persero d’animo e ricostruirono i luoghi andati perduti con le forme tardo-barocche che contraddistinguono oggi questa parte della Sicilia e la stessa Siracusa.

Proprio questo terremoto fu la causa della perdita della stratificazione araba, l’altra civiltà che fece grande Siracusa e l’intera isola.

E nel bel mezzo dell’Isola di Ortigia, tra le infinite meraviglie accumulatesi nel corso dei secoli, si conserva un dipinto magnifico e tremendo, come tutte le tele del protagonista della nostra storia.

Andiamo a vedere di chi si tratta e tratteniamo il respiro fino all’ultimo paragrafo, pronti ad ammirare questo quadro sbalorditivo.

Il pittore maledetto e l’Orecchio di Dioniso

Siracusa, dicembre dell’anno 1608.

Due uomini si aggirano curiosi e circospetti in un paesaggio dai tratti lunare.

Uno dei due è un grande erudito – archeologo ante litteram – e per lui la città non ha segreti.

L’altro è un pittore con dei trascorsi e un presente decisamente movimentati. Malgrado sia impegnato anima e corpo nella realizzazione della grande tela a lui commissionata dalle autorità cittadine – il nostro protagonista ha modo di ammirare estasiato le latomie.

Siamo davanti alle mitiche cave di pietra da cui i coloni greci estrassero con sforzo immane il calcare per costruire i grandi monumenti della città.

Ed è alla presenza di questa colossale fenditura nella roccia che l’archeologo Vincenzo Mirabella racconta al nostro Caravaggio la storia di Dioniso il Grande, tiranno di Siracusa in epoca greca che trasformò questa cava di pietra in un carcere durissimo per nemici e oppositori.

Alla presenza dell’illustre e inquieto ospite, Mirabella racconta di come Dionisio – sfruttando le straordinarie capacità acustiche della cava – fece chiudere la latomia con un grande cancello piazzando il suo carceriere di fiducia alla sommità della grotta.

Qui l’uomo di Dioniso, tramite una fenditura, poteva ascoltare comodamente i dettagli delle conversazioni dei prigionieri e successivamente riferire il tutto al tiranno.

Caravaggio colpito dal racconto di Mirabella e dall’astuzia del sovrano greco, esclamò: “Non avete veduto voi come il tiranno per voler fare un vaso che per far sentire le cose servisse, non volse altronde pigliare il modello, che da quello, che la natura per lo medesimo effetto fabbricò. Onde si fece questo carcere a somiglianza d’un Orecchio”.

E ancora oggi quella mastodontica apertura nella roccia – alle spalle del Teatro greco di Siracusa – è da tutti conosciuta come Orecchio di Dioniso, proprio con l’epiteto uscito dalle labbra di Caravaggio.

Quattro passi nel mito

Dal parco archeologico dove sorge l’Orecchio di Dioniso, ci spostiamo verso l’Isola di Ortigia. Proprio qui si conserva la superba tela di Caravaggio, eseguita dal pittore nel suo brevissimo soggiorno in città.

Vedremo come lo scenario delle latomie e delle catacombe, visitate con l’attenta guida dello studioso Vincenzo Mirabella, rimarrà fortemente impresso negli occhi del pittore.

Ma prima di scoprire il quadro facciamo quattro passi tra i monumenti più significativi presenti sull’Isola di Ortigia.

Insieme vedremo:

  • il Castello Maniace,
  • la Fonte Aretusa,
  • e piazza Duomo.

Per poi scoprire finalmente il grandioso quadro di Caravaggio.

Partiamo con lo straordinario maniero che ci accoglie altero sulla punta più estrema dell’Isola di Ortigia.

Il Castello Maniace

Quella del Castello Maniace è una storia complessa e articolata. E non si può parlare di questa fortezza senza tirare in ballo il generale bizantino Maniace.

Siamo nei primi decenni dell’anno mille. All’epoca del dominio arabo, i bizantini tentano la riconquista del territorio siciliano e affidano l’arduo compito al generale Maniace.

Con una avanzata terribile, il generale e le sue truppe nel giro di pochissimo tempo riconquistano buona parte della Sicilia orientale.

Per sancire i suoi successi, il comandante fa costruire una fortezza sulla punta più estrema dell’Isola di Ortigia – proprio nel punto in cui più tardi sarà edificato il castello che porta ancora oggi il suo nome.

Richiamato in patria, in barba a tutte le conquiste effettuate il generale sarà condotto in carcere. Evidentemente i successi ottenuti dal generale avevano fatto tremare i polsi all’Imperatore bizantino, spaventato dai mirabili trionfi ottenuti da Maniace.

Il Castello Maniace, nelle sue forme attuali, risale ai primi decenni del ‘200 quando Federico II ne promosse la costruzione negli anni compresi tra il 1232 e il 1240.

Più tardi, il maniero fu inglobato nella poderosa cinta muraria voluta da Carlo V, mentre nel 1704 fu teatro di una colossale esplosione. Le ultime modifiche al maniero vennero apportate in età napoleonica e poi con i Borboni.

Le sovrapposizioni di tutte queste epoche storiche hanno conferito al Castello Maniace quella forma singolare che ammiriamo ancora ai nostri giorni, quasi come una nave che si protende nel mare.

Passiamo dalla storia del Castello Maniace al mito della Fonte Aretusa, spostandoci di appena un centinaio di metri sull’Isola di Ortigia.

La Fonte Aretusa

Oltre alla particolarità di essere una sorgente di acqua dolce a ridosso del mare e luogo (sembra unico in Europa) dove crescono spontaneamente le piante di papiro – la fonte deve la sua fama al mito legato alla divinità da cui prende il nome: la ninfa Aretusa.

Questo il mito, narrato da Ovidio nelle sue Metamorfosi.

La ninfa Aretusa vive in Acaia, in Grecia. Ha fama di essere bellissima ma allo stesso tempo è molto timida.

Un giorno, mentre ritorna da una battuta di caccia, si imbatte in un fiume dalle acque limpidissime. La ninfa è stanca ed accaldata, così decide di immergersi in quella amena frescura per ritemprare il suo corpo.

Aretusa inizia a bagnarsi e solo quando ha preso confidenza con le acque decide di togliersi i vestiti e si immerge nuda nel fiume. Ma all’improvviso il corso d’acqua inizia stranamente a gorgogliare.

Aretusa impaurita fugge sulla riva opposta a quella su cui aveva abbandonato le vesti, e inizia una fuga precipitosa. Il fiume Alfeo emerge dalle acque e la bracca gridandole dietro: “Dove corri Aretusa”.

Alfeo di fatto non la raggiunge mai ma non molla un secondo, e dopo un tempo che sembra interminabile Aretusa inizia a perdere le forze. A quel punto la ninfa invoca l’aiuto di Diana, dea della caccia e sua protettrice.

La dea ha pietà della ninfa e la avvolge in una fitta nube per celare il suo corpo. E subito dopo la tramuta in acqua.

Alfeo, abbandonate le sembianze umane, ritorna fiume e si mescola con Aretusa.

La terra si squarcia, e le acque di Alfeo e Aretusa ormai unite iniziano un lungo viaggio tra grotte e anfratti per riemergere in superficie nella lontana Sicilia, proprio sull’Isola di Ortigia – nel punto esatto in cui oggi sgorga la Fonte Aretusa.

Piazza Duomo

Spostandoci ancora di qualche passo verso il cuore dell’Isola di Ortigia – giungiamo in Piazza Duomo, su cui prospettano edifici degni di nota come il palazzo del Senato, palazzo Beneventano del Bosco e la sede dell’Arcivescovado.

Ma il gioiello architettonico della piazza è senza dubbio il Duomo con la sua splendida facciata barocca che cela al suo interno una meraviglia assoluta.

Oltrepassato l’ingresso ci immergiamo in un tempio greco perfettamente conservato, dove possiamo ammirare ancora al loro posto, lungo il perimetro interno, le colossali colonne doriche del Tempio di Atena – fatto edificare dal tiranno Gelone nel V secolo a.C. dopo la vittoria riportata dai greci “siciliani” ai danni dei cartaginesi.

Il Tempio ha seguito fedelmente la storia millenaria dell’Isola di Ortigia. Fu trasformato prima in luogo di culto cristiano, poi in moschea durante la dominazione araba. Divenne nuovamente una chiesa con l’avvento dei Normanni in Sicilia e qualche secolo dopo fu rimodellato secondo i dettami dell’architettura barocca.

La parte sud di Piazza Duomo è chiusa dalla chiesa di Santa Lucia alla Badia. E proprio qui dentro si trova la tela di Caravaggio che andremo a scoprire tra poco.

Caravaggio arriva a Siracusa

Quando Caravaggio mette piede a Siracusa nell’ottobre dell’anno 1608, è un uomo in fuga dopo aver compiuto l’ennesimo misfatto della sua vita.

Ha lasciato l’isola di Malta in maniera rocambolesca, in fuga da quei Cavalieri che prima lo avevano accolto nell’Ordine e poi lo avevano cacciato come membrum putridum e foetidum. Ma l’ira dei Cavalieri si placherà solo quando riusciranno a sfregiare il pittore: cosa che avvenne realmente circa un anno dopo, all’esterno dell’osteria del Cerriglio a Napoli.

Intanto qui a Siracusa, Michelangelo Merisi trova ospitalità in Mario Minniti – pittore con una fiorente bottega in città. Mario abita proprio su l’Isola di Ortigia e da giovane è stato uno dei sodali di Caravaggio, quando insieme vagavano tra le strade inquiete di Campo Marzio a Roma.

Appena arrivato, e circondato dalla fama che lo precedeva, le autorità cittadine affidano al pittore lombardo l’esecuzione di una tela di grandi dimensioni che ha come soggetto principale la patrona della città: Santa Lucia.

In realtà, il quadro venne eseguito per la basilica di Santa Lucia al Sepolcro, luogo di culto sorto sopra le catacombe dove secondo la tradizione fu sepolta originariamente la santa.

In seguito, la tela è stata spostata nella chiesa che affaccia su Piazza Duomo, sempre dedicata al culto di Lucia.

Il Seppellimento di Santa Lucia

La scena fermata sulla tela da Caravaggio è quella del “Seppellimento di Santa Lucia”.

La santa è morta da pochi istanti. Giace abbandonata sul terreno, la testa reclinata all’indietro e sul collo una profonda ferita.

In primo piano i due becchini, due energumeni coperti da pochi stracci, sono intenti a spalare la terra. Con le loro figure e le braccia possenti fanno quasi da cornice al corpo della martire.

Ma improvvisamente uno dei due, quello a sinistra, alza la testa e viene colpito dalla presenza di un fascio luminoso. Sembra aver visto letteralmente la luce, sembra essere stato redento proprio come espresso da Lucia nel momento della sua morte: convertire al Cristianesimo uno dei suoi atroci aguzzini.

In uno scenario cupo e malinconico, lo sfondo sembra essere qualcosa di già visto.

Quasi come se Caravaggio avesse ambientato questo tragico momento tra le tenebre delle catacombe o forse delle latomie.

Quegli anfratti bui nella roccia da cui i Greci estrassero il materiale per costruire i loro splendidi monumenti e da cui Caravaggio ha estratto la scena per ambientare questa tela cupa e angosciata come la sua anima.

“L’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità.”
Pablo Picasso

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