LEONARDO DA VINCI e IL CENACOLO Milano, Ludovico il Moro, un Cavallo mai terminato, Giuda ed un “vicino di casa” poco considerato

“La sera uscii a passeggio con un compatriota e discutemmo animatamente sul primato di Michelangelo o di Raffaello: io tenevo per il primo, lui per il secondo, e la conclusione fu un elogio concorde per Leonardo da Vinci”

Qui toccheremo uno dei mostri sacri della storia dell’arte e dell’intera storia dell’umanità:

  • Leonardo da Vinci.

E lo faremo parlando di una delle sue opere pittoriche più famose in assoluto:

  • il Cenacolo

che adorna – con qualche acciacco – una delle pareti del refettorio della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano.

E’ mia intenzione parlare del genio di Vinci esclusivamente come artista e figlio del suo tempo, senza chiamare in causa alchimia, esoterismo ed elementi complottistici che negli ultimi anni hanno quasi infangato la figura dell’uomo poliedrico, del grande sperimentatore e dell’immenso artista.

Prima di addentrarci nel Cenacolo, vediamo cosa succede intorno al suo autore.

Da Firenze a Milano (senza passare per Roma)

Sono anni di grande splendore artistico ed intellettuale per le corti degli stati italiani, ma anche di pericolosi giochi politici, intrighi e scalate al potere da parte dei Signori del tempo.

E’ l’anno 1481.

A Firenze domina Lorenzo de’ Medici, noto come Il Magnifico. Solo tre anni prima, il signore della città toscana è scampato quasi per miracolo alla Congiura dei Pazzi dove ha perso la vita – assassinato brutalmente dai congiurati nel Duomo della città – l’amato fratello Giuliano.

In quegli stessi anni a Milano, il signore di fatto del Ducato è Ludovico Sforza detto Il Moro. Reggente per il nipote Gian Galeazzo Maria Sforza, il Moro si comporta come il vero Duca e alla misteriosa morte del giovane – avvenuta nel 1494 per mano dello stesso Moro, come affermano i maligni – Ludovico  diventa Duca della città anche di diritto.

Sempre nel 1481 a Roma, è in corso il pontificato di Sisto IV della Rovere – papa della Chiesa cattolica dal 1471 al 1484.

Lorenzo il Magnifico, Ludovico il Moro e Sisto IV#googleimages

Vediamo in che rapporto stanno tra di loro i tre “sovrani” e soprattutto come si inserisce Leonardo in questi giochi di potere.

Tutto sommato tra il Magnifico ed il Moro corre buon sangue: Firenze e Milano sono alleate e non si segnalano attriti di rilievo tra le due città.

Lo stesso non si può dire riguardo al Magnifico e a Sisto IV. Non vogliamo dire che il papa fomentò la Congiura del 1478 per eliminare i Medici, ma sicuramente dalla morte di Lorenzo e Giuliano il pontefice avrebbe tratto i suoi benefici.

Tra un intrigo e l’altro, però, Sisto IV ha tempo e voglia di dedicarsi anche alle arti e alla pianificazione urbanistica della città che governa: è uno dei primi papi del Rinascimento a rimettere in moto Roma.

Per far affrescare le pareti della cappella Sistina – spazio sacro dedicato alla Vergine e fatto ristrutturare dal papa – Sisto IV chiama uno dei più importanti pittori attivi a Firenze in quegli anni: Pietro Vannucci detto il Perugino.

Ma il programma ideato dal papa, con le storie di Mosè e di Gesù, è articolato e complesso – ancor prima che siano pensati gli interventi di Michelangelo sulla volta e sulla parete di fondo. Per questo motivo, proprio Lorenzo de’ Medici decide di inviare a Roma il gotha della pittura rinascimentale del tempo: un’oculata mossa diplomatica nel puro stile del Magnifico, dopo i tragici fatti del 1478.

Lorenzo spedisce nell’Urbe una squadra di fuoriclasse che annovera pittori del calibro di Sandro Botticelli, il Ghirlandaio e Luca Signorelli – a dar man forte al Perugino.

Il Perugino, Sandro Botticelli e il Ghirlandaio#gooleimages

Chi manca in questo elenco di portenti? Il nostro Leonardo da Vinci.

Come mai? Perché il Magnifico non inviò anche Leonardo a Roma per far si che anche lui partecipasse ad uno dei più importanti cicli di affreschi mai eseguito prima dell’arrivo sulle scene di Michelangelo?

Non è dato saperlo con certezza. Probabilmente perché Leonardo era sì considerato il migliore di tutti, ma allo stesso tempo non era certo un tipo affidabile. Non portava mai a termine le sue opere, si perdeva dietro mille divagazioni, passava il tempo a vergare di disegni e di appunti fitti e minuziosi i suoi innumerevoli taccuini.

Forse Leonardo si rammarica della mancata chiamata a Roma, tanto più che alla corte di Sisto IV accorrono in massa tutti i suoi compagni di studi. Botticelli, il Ghirlandaio e il Perugino avevano svolto come lui il giovanile apprendistato presso la bottega del Verrocchio, il maestro dei maestri, oppure avevano collaborato a vario titolo con questo.

Quasi una beffa per il genio di Vinci.

A Milano con il Moro (e con il CV in tasca)

E’ l’anno 1482.

Mentre a Roma i suoi colleghi portano a termine gli splendidi affreschi sulle pareti laterali della cappella Sistina, Leonardo si trasferisce a Milano.

Si tratta solo di un caso? Possiamo dubitarne.

Il trasferimento a Milano è pianificato nei dettagli. A Firenze non c’era più spazio per lui, malgrado avesse già 30 anni e fosse ormai una personalità affermata e riconosciuta.

Ma a confermarci l’attenta premeditazione della sua mossa è la lettera di intenti – quasi un curriculum vitae d’altri tempi – che in quello stesso anno Leonardo indirizzò all’attenzione di Ludovico il Moro, il signore di fatto del Ducato di Milano.

Leonardo sa quali leve adoperare e conosce perfettamente i problemi politici del Ducato di Milano – uno stato bramato dalle grandi potenze straniere ed in guerra permanente per la salvaguardia dei suoi confini.

Per tale motivo, la lettera al Moro è un elenco dettagliato delle sue mirabili capacità ingegneristiche in campo militare. Leonardo sa costruire spaventose macchine da guerra, come bombarde, carri coperti, mortai e catapulte, oltre a sistemi difensivi inespugnabili in caso di attacco nemico.

Come egli stesso dice: “componerò varie et infinite cose da offender et difendere”.

Solo alla fine della lettera, Leonardo sembra ricordarsi che è anche un artista.

E per questo motivo afferma che in tempo di pace progetterà mirabili architetture, modellerà sculture usando diversi materiali e dipingerà quadri di ogni tipo.

La lettera termina con la possibilità di realizzare il gigantesco monumento equestre in onore di Francesco Sforza, il padre di Ludovico:

Item si poterà dare opera al cavallo di bronzo, che sarà gloria immortale et aeterno onore de la felice memoria del Signore vostro patre et de la inclita casa Sforzesca”.

Dal Cavallo (mai realizzato) al Cenacolo (dipinto con una tecnica sperimentale)

E’ l’anno 1495.

Leonardo vive e lavora a Milano ormai da circa 13 anni.

Da quando è arrivato in città – tra i mille impegni di intellettuale e di artista – si dedica con impeto al famoso progetto del “Cavallo”, il monumento in onore di Francesco Sforza già descritto nella lettera al Moro.

La storia del Cavallo di Leonardo è un po’ la cartina di tornasole del suo modo di operare in ambito artistico: impegno e dedizione lasciano sovente il posto ad altri progetti e a mille interessi, salvo poi ritornare sulle opere quando ormai sembra tutto perduto.

Forse è proprio questo il motivo per cui le (pochissime) opere artistiche di Leonardo, ancora oggi visibili, emanano un fascino senza tempo e senza confini.

Ma il Cavallo?

Leonardo riuscì a costruire materialmente solo un modello in argilla.

Quando era tutto pronto per la fusione del gigantesco monumento, la beffa delle beffe: il bronzo ammassato per l’opera viene requisito per forgiare i cannoni che di lì a poco serviranno a Milano per difendersi dall’assalto dei Francesi.

Una difesa di fatto inutile: nel 1499 il Moro cadrà velocemente sotto i colpi dei cugini d’Oltralpe e Leonardo sarà costretto a lasciare Milano, almeno per il momento.

Ma eravamo rimasti nel 1495.

E’ l’anno in cui Leonardo inizia a dipingere il celeberrimo Cenacolo, sulla parete nord del refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie.

La chiesa è uno dei fiori all’occhiello della politica culturale e del mecenatismo di Ludovico Sforza.

Il Signore di Milano vuole trasformarla nel sepolcro di famiglia e ne affida il progetto a Donato Bramante che progetta e realizza la magnifica tribuna: manifesto dell’architettura del Rinascimento.

I dipinti – che dovevano ornare in parte sia il convento che la chiesa – vengono affidati a Leonardo. In questo contesto l’artista realizza il Cenacolo.

Quando Leonardo si mette all’opera, affiorano nella sua mente i celebri esempi presenti in alcune chiese fiorentine dove grandi pittori rinascimentali avevano già trattato un soggetto analogo: l’Ultima Cena di Andrea del Castagno oppure quella del Ghirlandaio (che oggi puoi ammirare nel Museo di San Marco), entrambe a Firenze.

In questi affreschi, la composizione del Cenacolo è molto simile: Gesù sta benedicendo il pane ed il vino, Giovanni si accosta al petto di Cristo mentre Giuda viene raffigurato – isolato da tutti gli altri – dall’altra parte del tavolo, come se la condanna eterna del tradimento fosse già caduta su di lui.

La composizione “classica” che abbiamo appena vista viene letteralmente stravolta da Leonardo.

Nel suo Cenacolo, (oggi protetto anche come sito UNESCO), il Cristo ha appena terminato di pronunciare la fatidica frase: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà” (Giovanni, XIII, 21).

Gli Apostoli vengono letteralmente investiti dalla rivelazione di Gesù, quasi come un’onda che si abbatte sulla spiaggia: i discepoli si agitano, si interrogano, sono esterrefatti ed increduli, le mani esprimono disagio, tormento, colpa e paura.

Si riuniscono a gruppi di tre, sei alla sinistra di Gesù e sei alla sua destra mentre il Cristo – la cui testa coincide con il centro della composizione prospettica – rimane isolato al centro.

Il fulcro del dipinto è il gruppo di tre discepoli subito raffigurati al lato destro di Gesù.

Pietro, il più lontano dei tre, scavalca Giuda e quasi spinge Giovanni – il discepolo preferito – a chiedere maggiori spiegazioni.

Giuda – che Leonardo raffigura in mezzo agli altri – indietreggia con le spalle, quasi abbattuto dalle parole di Gesù. Il suo è l’unico volto in penombra, con il corpo si getta sulla tavola imbandita e nella mano destra stringe il sacchetto con i 30 denari.

Giuda è in mezzo agli altri. Il suo tradimento è una scelta. Il suo peccato è volontario.

Pur rimanendo fisicamente in mezzo ai suoi simili, è la sua reazione da uomo ormai perduto, in base ad una scelta libera e volontaria, a spingerlo al di fuori della comunità.

“In questo modo è posto l’accento sul tema della libertà dell’uomo, rispondendo implicitamente a tanti dipinti dove Giuda, isolato al di là della tavola imbandita per la Pasqua, potrebbe sembrare vittima di una condanna avvenuta suo malgrado ab aeterno. Leonardo invece offre alla contemplazione dei frati domenicani di Santa Maria delle Grazie, la figura di un uomo, Giuda, che è tra gli uomini, ma che segna la sua condanna con le sue scelte, e così rappresenta un monito, uno stimolo alla prudenza e un invito alla riconciliazione, attraverso uno straordinario incontro tra arte, teologia e cultura umanistica” (Carlo Pedretti).

Ma questo mirabile capolavoro dell’arte rinascimentale ha un difetto tecnico.

Leonardo non dipinge secondo le regole canoniche dell’affresco, ma con una tecnica sperimentale che prevede la stesura del colore a secco. In tal modo, a causa dell’umidità e di altri fattori esterni, la sublime pittura murale ha iniziato a deteriorarsi appena terminata.

Per questo motivo l’opera ha subito innumerevoli restauri, alcuni sicuramente scellerati, che nel corso dei secoli hanno comunque permesso al capolavoro di arrivare un po’ acciaccato fino ai nostri giorni.

Il perché del mancato utilizzo dell’affresco è presto spiegato.

Leonardo amava ritornare più volte sulle sue creature, in un processo che prevedeva continui ripensamenti ed aggiustamenti. Stava parecchi giorni lontano dal dipinto, quasi non se ne curava più. Poi ritornava e per intere giornate non lo abbandonava nemmeno per un minuto, oppure dava qualche pennellata e andava subito per altre strade.

Un approccio del genere non poteva contemplare l’uso dell’affresco, tecnica che prevede una veloce stesura del colore sull’intonaco ancora umido. Cosa che non apparteneva appunto al modo di fare di Leonardo.

“L’ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava (…) venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di solito partirsi e andar altrove” (Matteo Bandello).

Uno sfortunato vicino di casa: Breve storia dell’affresco di Montorfano

Siamo sempre nell’anno 1495.

Mentre Leonardo si appresta ad iniziare il Cenacolo, sulla parete opposta Donato Montorfano si asciuga la fronte soddisfatto: ha appena terminato la sua opera.

Già. E’ curioso riflettere sul fatto che quando si entra nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, rapiti dal capolavoro del genio di Vinci, quasi non ci si accorge che nella sala vi è un’altra opera..

Si tratta dell’affresco della Crocifissione.

Opera più gotica che rinascimentale, con grande assembramento di persone, le torri della città fortificata sullo sfondo e le croci a T dei ladroni tipiche della pittura nordica.

Montorfano e Leonardo si fronteggiano da più di cinque secoli.

Sembrano abbastanza estranei tra loro ma in realtà sono venuti a strettissimo contatto.

Guardando in basso l’opera di Montorfano, sui lati destro e sinistro spiccano alcune figure parecchio mal conservate rispetto ai vivaci colori dell’affresco. Sono il duca Ludovico il Moro e la moglie Beatrice d’Este con i figli.

Sembra incredibile, ma sono finiti lì per un’invasione di campo!

Con buona probabilità, furono aggiunti proprio da Leonardo con quella sfortunatissima tecnica a secco che tanti tormenti ha dato nel corso dei secoli ai restauratori e all’umanità tutta.

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Pablo Picasso

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