MICHELANGELO BUONARROTI e il MOSE’ Il genio inquieto e la statua con le corna

“…nella vita di Michelangelo il Mosè rappresenta un picco di conoscenza e di sofferenza così a lungo protratti che il suo artefice arrivò a definire la statua, e la tomba di cui è ornamento, la tragedia della mia vita"

E’ arrivato il momento di parlarti di:

  • Michelangelo Buonarroti

uno degli artisti più famosi e geniali di tutti i tempi.

Ma lo farò da un punto di vista diverso, raccontandoti quello che è un piccolo fallimento nella siderale carriera dell’artista:

  • la Tomba di Giulio II.

Se avrai un po’ di pazienza vedremo come, alla fine, dal fallimento nascerà comunque un capolavoro scultoreo assoluto… e non poteva essere diversamente al cospetto di questo talento infinito.

Un carattere sui generis

Michelangelo riveste un ruolo di primo piano nella storia dell’arte. E questa è cosa notissima.

A partire da Giorgio Vasari e dal biografo Ascanio Condivi, la letteratura artistica di tutti i tempi si è cimentata senza indugio nella descrizione e nell’analisi delle sue ineguagliabili opere d’arte.

Pensa agli affreschi della volta della Cappella Sistina e al Giudizio Universale, alle sculture della Pietà e del David, all’architettura maestosa della cupola di S. Pietro: queste sono solo alcune delle laboriose imprese che scaturirono dal suo genio e dal suo impegno.

Ma Michelangelo è passato alla storia anche per la sua personalità sopra le righe: un miscuglio di permalosità, diffidenza e accessi collerici.

Almeno questo sembra essere il quadretto tramandatoci dalla letteratura artistica sull’artista di Caprese.

La sua è stata una vita raminga, vissuta in una miseria quasi ricercata e lontana anni luce da qualsiasi forma di sfarzo. Aveva a che fare quotidianamente con papi e principi eppure rifuggiva come la peste il fasto delle corti dell’epoca.

Questa condotta, non lontana da quella di un’eremita, meraviglia ancor di più perché in realtà Michelangelo già in vita era famosissimo: riceveva commissioni considerevoli e quindi, con buona approssimazione, disponeva di consistenti somme di denaro a cui attingere.

Mentre Bramante e Raffaello, gli altri due artisti che insieme a lui furono a servizio di papa Giulio II nella Roma di inizio ‘500, si muovono in maniera disinvolta tra gli agi e i lussi – Michelangelo conduce una vita solitaria, cura poco l’igiene personale, non ha amici.

Ma soprattutto, uno dei più grandi maestri dell’arte di sempre, non ha mai avuto nemmeno un allievo diretto; sospettoso sopra ogni cosa com’era, non voleva nessun collaboratore tra i piedi.

E difficilissimi sono stati anche i rapporti con i colleghi artisti e con i committenti, come vedremo nell’episodio che sto per raccontarti.

Michelangelo e Giulio II: un rapporto tempestoso

Quando nel 1503 viene eletto al soglio pontificio Giulio II, il papa guerriero intende rinnovare Roma e riportarla al posto che le spetta nella storia.

papa Giulio II ritratto da Raffaello
Ritratto di Giulio II#googleimages

Il pontefice avvia lavori urbanistici consistenti, inizia una delle maggiori imprese architettoniche di sempre come la costruzione della nuova basilica di San Pietro ed elargisce commissioni artistiche da cui nasceranno capolavori assoluti come gli affreschi della volta della Cappella Sistina e le cosiddette Stanze di Raffaello.

Per avviare questo programma rivoluzionario, Giulio II chiama a sé i tre più grandi artisti dell’epoca: Donato Bramante, Raffello Sanzio ed il nostro Michelangelo Buonarroti.

Considerando il carattere irascibile dell’artista toscano, il rapporto con un pontefice come Giulio II – nemmeno lui così tenero, come potrai immaginare dall’appellativo assegnatogli di papa guerriero – non è sicuramente da annoverare tra quelli che potremo definire idilliaci.

Anzi.

Nel 1505 l’improvvisa fuga del Buonarroti per poco non sfocia in una crisi diplomatica tra il papato e Firenze.

I fatti sono questi.

L’anno precedente, Giulio II aveva incaricato Michelangelo di scolpire il suo colossale monumento funebre, ma allo stesso tempo il papa era alle prese con il Bramante e i primi progetti per la ricostruzione della basilica di S. Pietro.

Per tale motivo il pontefice, indaffarato con un progetto assai più complesso, aveva rivolto poche attenzioni alla costruzione del proprio sepolcro.

Giulio II non concede allo scultore nessuna udienza per intere settimane: profondamente amareggiato, Michelangelo decide di far ritorno a Firenze lasciando in fretta e furia la città eterna. Il papa naturalmente non vuole rinunciare ad uno dei suoi artisti di punta, e per questo smuove mari e monti pur di far rientrare il Buonarroti a Roma.

Nel luglio del 1506, il pontefice scrive di suo pugno una lettera indirizzata alle autorità della Signoria di Firenze:

Michelagnolo scultore, che si è partito da noi senza fondamento e a capriccio, per quanto intendiamo, teme di tornarci; contro cui non abbiamo che dire, perché conosciamo l’umore degli uomini di tal fatta”.

Da queste parole si evince che il papa è pronto a perdonare Michelangelo, proprio perché Giulio II ben conosce e sa trattare i personaggi con un carattere saturnino come quello del nostro scultore:

 “…conosciamo l’umore degli uomini di tal fatta”.

Il monumento funebre a Giulio II

1505-1545…

40 anni.

Questo è il tempo che passa tra il primo progetto per la tomba di Giulio II e la sua definitiva realizzazione nella chiesa di S. Pietro in Vincoli.

Per un perfezionista maniacale come Michelangelo, la genesi e la difficilissima esecuzione di questo monumento saranno stati sicuramente fonte di dubbi continui e di indicibili tormenti spirituali.

Tant’è che nel 1542, riferendosi alle sue “incapacità” artistiche, lo stesso Buonarroti scriveva:

La pittura e la scultura, la fatica e la fede m’àn rovinato, e va tuttavia di male in peggio. Meglio m’era ne’ primi anni che io mi fussi messo a fare zolfanelli, ch’i’ non sarei in tanta pasione”.

Col senno di poi, tutto il mondo può tirare un sospiro di sollievo: è stato sicuramente meglio che Michelangelo abbia fatto l’artista, invece di mettersi “a fare zolfanelli”, perché alcune delle sue opere sono annoverate tra i massimi capolavori di tutti i tempi.

Puoi vedere come il tormento dell’uomo Michelangelo si riflette anche sulle sue capacità artistiche, portandolo a crucciarsi e a deprimersi per il mancato raggiungimento di alcuni obiettivi.

In effetti, tra il primo progetto della tomba del 1505 e il sesto del 1542-1545, c’è qualche piccolo aggiustamento. Bisogna tener conto però che la storia travagliata di questo monumento non dipende solo esclusivamente dallo scultore ma da una serie di cause esterne.

Nel 1505 Giulio II è impegnato animo e corpo nel progetto della ricostruzione della basilica. Nel 1513 il pontefice viene a mancare ed infine, negli anni successivi, i suoi eredi non dispongono più delle finanze necessarie per sostenere un’opera così impegnativa.

Tant’è che nel corso degli anni non solo il monumento si riduce notevolmente di taglia ma addirittura si decide di spostarlo: oggi puoi ammirarlo nella chiesa di San Pietro in Vincoli, a pochi passi dal Colosseo e dal Rione Monti, ma il progetto originale prevedeva ben altra collocazione.

Il primo progetto del 1505 è un grandioso mausoleo – a forma piramidale, su tre livelli e adornato con circa 40 statue – che doveva essere posizionato come un gruppo isolato nell’abside della basilica di S. Pietro: in questo modo Giulio II avrebbe potuto sancire per sempre la sua grandezza e la continuità della chiesa cattolica tramite il legame diretto con la sottostante tomba di S. Pietro.

Al tempo del secondo progetto, iniziato nel 1513 quando il pontefice è morto da poco, risalgono le due statue dello Schiavo morente e dello Schiavo ribelle – oggi conservate al Museo del Louvre di Parigi – e la scultura raffigurante il Mosè.

La storia del monumento non è sicuramente un successo, ma malgrado questo Michelangelo riesce a tramandarci comunque un pezzo di eccezionale pregio come la statua del Mosè.

Meravigliato, forse anche da sé stesso, battendo il suo martello da scultore su un ginocchio del Mosè Michelangelo dopo averlo terminato gli chiese: “perché non parli?”.

La risposta chiaramente non arrivò, ma ci sono tante altre curiosità tramandate dalla storiografia non ufficiale.

Una delle più intriganti su questa statua riguarda la testa del Mosè.

Sembra che le corna poste sulla fronte del personaggio biblico siano dovute ad un errore di traduzione dall’ebraico dell’espressione “raggi di luce”, quelli che fuoriuscivano dal capo del patriarca mentre scendeva dal Monte Sinai.

Finalmente, tra il 1542 e il 1545 viene terminato il sesto e ultimo progetto del monumento.

Non siamo più nella sontuosa basilica vaticana ma nella chiesa di S. Pietro in Vincoli.

Il sepolcro piramidale si è trasformato in una tomba addossata ad un muro, e per giunta Giulio II non riposerà mai qui perché nel frattempo il suo corpo è stato tumulato in Vaticano.

Però il Mosè ancora oggi fa bella mostra di sé, al centro del monumento con la sua barba fluente e le ciocche attorcigliate, a dimostrare a tutti noi che anche dai fallimenti possono nascere capolavori eterni.

“L’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità.”
Pablo Picasso

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